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Migranti di ieri e di oggi (D.Licata)
Giornata Mondiale MIgrazioni 2012

Fondazione Migrantes - Servizio Migranti 1/12


Nel 1963 Giuseppe Lucrezio Monticelli, allora Segretario delle Giunta Cattolica Italiana per l’Emigrazione scriveva: «Ogni movimento migratorio è sempre conseguenza di un duplice ordine di fattori: uno obiettivo (diversità di condizioni di vita tra il luogo di origine e quello di destinazione ed uno soggettivo (valutazione da parte dell’emigrante della situazione e suo conseguente atteggiamento»1. Entrambi i fattori hanno influenzato nel passato e continuano ancora oggi a influenzare, la scelta di partire e dare inizio a un progetto migratorio ed è emblematico come pagine scritte sulla mobilità in entrata o in uscita nel/dal nostro Paese siano, oggi, estremamente attuali e contemporanee.
Si prenda, ad esempio, il volume L’emigrazione del vescovo Geremia Bonomelli del 1896 (edizione Roma, Desclée, 1912) in cui afferma: «Quando si tratta di impedire il male e di fare il bene a centinaia di famiglie appartenenti alla classe lavoratrice più morale e benemerita, non si deve guardare a partiti politici, all’abito, alla professione di questo o di quello: si accetta l’opera di tutte le persone di buona volontà. Intendiamola una buona volta: nel campo del bene non si respinge la mano di chicchessia e certi esclusivismi, si passi la parola, non mostrano che la povertà di mente e di cuore di coloro, che pur si vantano discepoli e apostoli di progresso e di larghezza di idee!»2. In un altro punto della stessa opera scrive: «Ricordiamoci che la terra è il punto d’appoggio per dare la scalata al cielo. Non dimentichiamo che l’uomo ha un corpo, che ha bisogno di pane, di vesti, di tetto, e ha diritto di avere ciò che gli è necessario. Se noi non mostreremo di aver cura di tutto ciò che appartiene al corpo, egli non si curerà di ciò che noi gli diremo quanto all’anima (…) Non separiamo il corpo dall’anima, il cielo dalla terra, i beni presenti da quelli futuri»3. E concludeva: «Dunque, Parroci, Sacerdoti e laici cattolici, usciamo dal tempio, dalle sagrestie, gittiamoci in mezzo al popolo: ricordiamogli i suoi doveri, ma non passiamo sotto silenzio i suoi diritti: sarebbero due misure (…) Il nostro posto è nel mondo come nel Santuario»4.
Sono parole illuminanti che comunicano quanto la mobilità sia una questione importante tanto per il paese di partenza quanto per il luogo di arrivo e soprattutto, quanto sia un “fatto sociale” che mette l’uomo al centro tanto se protagonista del flusso migratorio quanto se chiamato ad operare in funzione di esso a livello politico o religioso.
Riportando l’uomo al centro del discorso sulla mobilità come sempre meno spesso avviene a favore del piano politico ed economico, è possibile realizzare un parallelo passato/presente e analizzare quali siano le caratteristiche che contraddistinguevano il migrante di ieri e quali quelle che, invece, caratterizzano il migrante di oggi.
La necessità
Se prima le cause principali di emigrazione erano le guerre, la fame, la carestia che hanno portato a 26 milioni di partenze dalla sola Italia nel giro di un secolo di storia, oggi le necessità hanno cambiato forma. Chi decide di partire oggi lo fa perché spinto soprattutto dalla disoccupazione o, d’altra parte, dalla realizzazione personale. Si prendano ad esempio i giovani italiani che a tre anni dalla laurea decidono di lasciare il proprio paese dopo essersi formati nelle accademie italiane, dopo aver frequentato stages gratuiti e dopo aver cercato invano un posto di lavoro in grado di rispondere alle loro aspettative. La necessità è sempre la spinta allo spostamento. Nessun uomo desidera cambiare il proprio luogo di socializzazione primaria a meno che questo luogo non risponda più alle sue esigenze di vita economiche, culturali e sociali.
La tipologia delle migrazioni
Solitamente nel passato si cercava di emigrare in un ambiente etnico, culturale, linguistico e sociale per quanto possibile più simile a quello nel quale si era abituati a vivere. L’esempio a cui si può pensare è quello delle prime immigrate in Italia provenienti dalle ex colonie italiane Somalia ed Eritrea, donne che avevano “conosciuto” l’Italia e gli italiani così come le polacche che avvertivano “simpatia” per l’Italia perché terra che ospitava il loro papa e a loro affine per la profonda religiosità. Anche gli italiani inizialmente si spostarono varcando l’arco alpino ovvero in territori conosciuti dell’Europa e solo successivamente l’emigrazione li ha portati più lontano, oltreoceano, in luoghi scoperti da esploratori italiani. Si è detto al punto precedente che a monte di ogni spostamento vi è la necessità e che questa ha, nel tempo, cambiato forma e caratteristiche. Oggi è possibile parlare di vari tipi di mobilità. Accanto alla forma più conosciuta ovvero la mobilità per motivi economico-occupazionali e alle antiche fughe per persecuzioni politico-religiose vi sono motivazioni ideologiche (si pensi a chi oggi decide di raggiungere Israele o alla città internazionale di Auroville5 in India).
Vi è chi si sposta per motivi culturali come ad esempio quelli che, dall’Italia, partono alla volta della Cina o del Giappone. Si tratta di connazionali affascinati da questo tipo di cultura, amanti dell’Oriente così come d’altra parte troviamo, nel mondo, milioni di cosiddetti italofili ovvero di amanti dell’Italia che trascorrono lunghi periodi nei nostri territori da turisti o che nei loro paesi di origine introducono elementi culturali tipicamente italiani nella loro quotidianità (si pensi alla cucina italiana, alla moda e al made in Italy in generale nonché alla lingua italiana sempre più studiata nel mondo). Infine vi sono le cosiddette love migrations ovvero gli “incontri nel mondo” che danno poi origine alla costituzione di nuclei familiari. È il caso quest’ultimo riportato, ad esempio, nel Rapporto Migrantes Italiani nel Mondo 2011 quando si prendono in considerazione gli italiani recentemente stabiliti in Finlandia.
Il tempo
Nella migrazione del passato il ritorno al luogo da dove si era partiti era difficile e sofferto. Basti pensare ai nostri connazionali andati oltremare o ai primi immigrati in Italia degli anni ‘70 che sono riusciti a tornare dai propri cari dopo più di cinque se non dieci anni di emigrazione e alcuni invece non sono mai tornati. La causa non è solo il costo del viaggio, ma anche la distanza geografica (si pensi, ad esempio, all’Argentina per gli emigrati italiani e a Capoverde per i primi immigrati in Italia degli anni ‘70-’80). Ma se prima tempo e spazio erano per i migranti fortemente dilatati oggi vi è stata una loro imponente contrazione. Grazie ai metodi telematici ci si riesce a sentire frequentemente e a costi molto contenuti. I social network e i blog permettono di condividere stati d’animo, pensieri, immagini della quotidianità. Le lettere di un tempo sono state sostituite dalle e-mail o dagli sms; la telefonata di una volta al mese o alla settimana è ora realizzata attraverso l’economicissimo skype così come il mese di navigazione è ora rimpiazzato dal volo aereo di compagnie sempre più a basso costo. Il migrante del passato, quindi, partiva nella speranza di ritornare; chi parte oggi, invece, rientra più volte nel luogo di origine.
L’identità migrante
Direttamente collegato a quanto detto sul tempo è il discorso sull’identità migrante. Un tempo “essere migrante!” lo si percepiva forte come vigoroso era il senso di spaesamento e sradicamento dalla propria realtà di origine. Oggi questo “sentirsi migrante” si è molto attutito soprattutto quando a spostarsi sono, ad esempio, gli italiani. Molti di questi ultimi, infatti, si spostano per cercare all’estero condizioni di lavoro e di vita rispondenti a quella che è la loro preparazione professionale, ai tanti anni di formazione spesi in Italia. In molti sfuggono attualmente alle statistiche perché, pur soggiornando all’estero per lunghi periodi, non ottemperano all’obbligo di legge che impone la cancellazione dall’anagrafe comunale di residenza e l’iscrizione all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero che ha sede presso il Ministero dell’Interno. La non iscrizione dalla maggior parte delle interviste deriva dalla ignoranza della conoscenza di questo obbligo della legislazione italiana e dal mancato sentirsi emigrato quando poi, a tutti gli effetti, lo si è. Il fatto di rientrare spesso o di avere comunque rapporti continui con i propri familiari e il luogo di origine fa sì che ci si senta non migranti. In molti poi rifiutano l’identità migrante aggrappandosi all’identità europea o cosmopolita ovvero la percezione di essere cittadini del mondo. L’identità migrante caratterizza molto di più gli immigrati in Italia o, comunque, coloro che scelgono come mete del loro progetto migratorio continenti diversi o paesi con cultura e tradizioni profondamente differenti. Il sentirsi migranti è spesso percepito perché è l’altro che ci fa sentire “ospiti” dove per altro si intende tanto la popolazione di un territorio quanto la burocrazia del paese in cui il migrante ha scelto di realizzare il progetto migratorio. Il sentirsi ospite fa sì che si avverta il senso di estraneità, l’essere diversi al contesto autoctono e questa percezione incide fortemente sul superamento del disagio migratorio e l’arrivo alle condizioni di inserimento (sociale e lavorativo) e di piena integrazione.
Lo spazio
Se prima la meta del progetto migratorio la si conosceva attraverso i racconti, le lettere, il “sentito dire”, le fotografie, ecc. Il più delle volte tutto materiale caratterizzato da una buona dose di fantasia e quindi non corrispondente alla realtà, oggi bisogna, a tal proposito, sottolineare alcuni aspetti importanti. Grazie all’avvento di internet il mondo, si dice, è a portata di un click per tutti. E avviene, infatti, che la maggior parte dei migranti si spostino in luoghi dove ancora hanno grande influenza sicuramente le catene migratorie, ma lo fanno con maggiori consapevolezze. Spesso il luogo di arrivo lo si conosce prima di arrivarvi, senza esserci mai stati prima e lo si conosce non solo attraverso la lettura di libri o di guide turistiche, o attraverso i racconti di altri, ma ci si documenta e si finisce per “conoscere quel luogo” in modo virtuale. Così accade, ad esempio, per i tanti studenti italiani che decidono di frequentare i programmi Erasmus che conoscono perfettamente, anche se virtualmente, la città, l’ateneo e il campus universitario navigando in rete prima di iniziare la loro esperienza all’estero.
L’assenza del rimpianto
Per i migranti del passato la società di origine da cui si era stati costretti a partire era e restava per sempre l’ambiente migliore, il locus hominis, la società dove, comunque, si tendeva a tornare a vivere mentre la meta di emigrazione era il luogo del mero lavorare e guadagnare. Da qui la necessità di trascorrere questo tempo limitato in un luogo che potesse ricostruire in piccolo il paese delle origini: si pensi alle tante little Italies sorte in America o alle tante città costruite dagli italiani nel mondo a cui diedero lo stesso nome di città italiane. Nel migrare di oggi si nota, invece, il rifiuto della comunità e del mondo sociale di origine che si abbandonano senza alcun rimpianto nella certezza che l’ambiente di destinazione è, senza dubbio, migliore di quello di partenza.
Il progetto migratorio
Il punto precedente ci porta a parlare della variazione del progetto migratorio del passato da quello di oggi distinguendo la figura dell’e-migrato italiano da quella dell’im-migrato in Italia. Per quanto riguarda l’emigrato, se nel passato a partire erano uomini soli o interi nuclei familiari oggi il progetto migratorio è sempre più individuale. Sono più che noti i filmati in bianco e nero o le fotografie ingiallite che mostrano i migranti italiani in attesa di partire sulle banchine dei porti o sui binari dei treni stipati nelle navi o nei convogli ferroviari. I volti emaciati dalla stanchezza o impauriti dei bambini o delle donne sono ben presenti nei nostri ricordi. Oggi chi parte alla volta dell’estero è, invece, un italiano che sperimenta un progetto migratorio individuale, che cerca la realizzazione personale dapprima professionale per poi attuare un progetto di vita personale. Anzi, dalle interviste emerge come la presenza di una famiglia oggi sia per gli italiani un motivo di blocco al progetto migratorio, poiché non permette di rischiare, di fare il “salto nel vuoto”, probabilmente perché la famiglia reclama responsabilità, maggiori attenzioni e massima prudenza. Il discorso è inverso per quanto riguarda l’immigrazione in Italia che da progetto individuale si è ormai trasformata da tempo in trasferimento definitivo per la maggior parte delle comunità presenti nel territorio italiano. Da ciò deriva l’aumento dei motivi di presenza per ricongiungimento familiare o per motivi familiari, ma in questo modo si spiegano anche le sempre più numerose nascite di bambini figli di immigrati in Italia, la crescita sempre più incisiva delle seconde generazioni e tutta la questione della riforma della legge italiana sulla cittadinanza che non permette a questi bambini e agli adolescenti di essere italiani, nonostante si sentano tali e non abbiano mai visto di persona il paese di origine dei loro genitori, se non prima del compimento del diciottesimo anno di età.
Migrante uomo o donna?
I primi immigrati in Italia erano donne provenienti dalle ex colonie italiane. Successivamente seguirono paesi quali Capoverde e le Filippine per poi passare alle polacche durante i primi anni di pontificato di Papa Giovanni Paolo II. Seguirono soltanto in un secondo tempo gli immigrati di sesso maschile provenienti soprattutto da paesi in cui vige un sistema sociale di discendenza patrilineare. Si pensi all’Egitto, al Corno d’Africa e ai paesi musulmani. Oggi la presenza immigrata in Italia per quanto riguarda il genere è pressoché ben distribuita così come le partenze dall’Italia vedono progetti migratori che coinvolgono indistintamente sia donne che uomini. Allo stesso modo, chi lascia il Belpaese è attualmente indistintamente uomo o donna, il più delle volte professionisti alla ricerca di posti di lavoro migliori a livello retributivo e di conferme professionali. È la generazione dei “talenti in fuga”, di chi ha sostituito la valigia di cartone con la borsa che contiene un pc in modo da lavorare in qualsiasi posto si trovi e in modo da non perdere mai i contatti con gli affetti. E se la valigia di cartone conteneva santini fotografie ecco che nel pc si conservano ugualmente fotografie, ricordi e i legami che si intessono e si arricchiscono con contatti quotidiani.
La preparazione scolastica
Sempre di più tanto per gli immigrati in Italia che per gli emigrati dall’Italia si tratta di movimenti di persone colte e preparate. Molti immigrati in Italia fanno lavori di gran lunga meno qualificati rispetto a quelli in cui erano occupati prima di partire. Ed è così che, ad esempio, che immigrati chirurghi in Italia fanno gli infermieri o i badanti e questo sia perché è comune l’impiego dell’immigrato in occupazioni dequalificate rispetto alla sua preparazione, sia per l’annosa questione italiana del riconoscimento dei titoli di studio stranieri. Per quanto riguarda gli italiani a partire sono sempre di più i laureati che finiscono con lo specializzarsi all’estero oppure che a tre anni dalla laurea e dalla ricerca di una occupazione nel Belpaese, provano l’esperienza estera trovando fuori dei confini nazionali la realizzazione dei progetti. Molti di questi italiani sono inseriti in attività professionali legate alla ricerca e propongono se stessi e i loro progetti a realtà estere che in modo più o meno immediato “acquistano” dall’Italia a costo zero uno dei talenti formati che finisce poi con l’essere premiato con titoli e riconoscimenti nelle più prestigiose realtà estere.
Nei punti che sono stati velocemente qui elencati si è cercato di fare un parallelo sulle caratteristiche del migrante di oggi e di ieri. Quello che al termine di questa riflessione appare in tutta la sua evidenza è una sorta di paradosso della vita umana la quale non può esistere di per sé, ma ha senso solo se reciprocata. Essa non può essere usata, utilizzata come le altre cose, non può essere “avuta” o “posseduta” perché la vita è vita solo se in relazione all’altro. Quanto detto diviene palese nella mobilità dove si può anche partire da soli, ma ci si ritrova a vivere intrinsecamente, strutturalmente in relazione all’altro. E in un’epoca in cui la mobilità è parte integrante della vita pensare quest’ultima nell’ottica di una nuova relazionalità implica il mettersi in discussione perché l’altro è sempre diverso da te e quindi è occasione di confronto e arricchimento nonché di messa in pratica di interazioni e interculture nella più piena esigenza di reciprocità.
 
 
 
1 Il fenomeno delle migrazioni interne nella realtà italiana contemporanea in Caritas di Roma, Miscellanea Lucrezio Monticelli, volume della Biblioteca Lucrezio Monticelli attualmente conservato presso il Centro Unitario di Documentazione Caritas/Migrantes di via Aurelia 796.
2 D. Giancarlo Perego, Il vescovo Geremia Bonomelli e la cura pastorale dei migranti in Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2011, Roma, Idos, 2011, p. 202.
3 Ivi, pp. 202-203.
4 Ibidem.
5 Fondata nel 1968, Auroville “la città dell’aurora” situata nello stato indiano del Tamil Nadu, è uno degli esperimenti più noti e meglio riusciti di eco-villaggio, dove vivono abitanti provenienti da circa 60 nazioni diverse. Auroville vuole essere un luogo di cui nessuna nazione possa rivendicarne il possesso, dove obbedire all’unica autorità della “Verità Suprema”. Una città universale di “anarchia spirituale”.