Avviati i lavori del Consiglio Episcopale Permanente (Roma, 21-23 settembre). Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’introduzione del Cardinale Presidente che ha aperto il confronto tra i Vescovi chiamati a preparare l’Assemblea Generale in programma a Roma dal 16 al 19 novembre.
I mesi imprevedibili e sconvolgenti da cui veniamo ci hanno consegnato alcune immagini, destinate a fissarsi in maniera indelebile nella memoria collettiva. I reparti ospedalieri trasformati in terapie intensive. La vita esposta a criteri di selezione e di scarto. L’isolamento che ha privato di affetti e conforti religiosi nel passaggio decisivo. Le bare anonime, caricate su camion militari. Le restrizioni delle libertà, le attività sospese, i tradizionali luoghi d’incontro deserti. Un Uomo affaticato e solo, che sale la china sotto la pioggia, e poi benedice una Piazza vuota in cui, significativamente, l’umanità intera si è riconosciuta presente.
Questi fotogrammi, carichi di forza evocativa, ci costringono a mantenere vivo lo sguardo su ciò che abbiamo vissuto nel far fronte alla pandemia; nel contempo, ci testimoniano che davvero nulla sarà come prima. Del resto, come avverte l’Arcivescovo di Milano, “tanto soffrire, tanto morire, tutto sarebbe sperperato se tornassimo alla vita di sempre, con la stoltezza di chi dimentica il dramma e il messaggio che la sapienza cristiana ne riceve”. Come Pastori siamo consapevoli di dover ripensare la forma dell’esperienza della fede, il nostro stesso ministero e, più in generale, la vita delle nostre comunità.
Le pagine che seguono intendono introdurre i lavori del Consiglio Permanente (Roma, 21-23 settembre), dove saremo chiamati a preparare l’Assemblea Generale (Roma, 16-19 novembre). Più che da una riflessione a tavolino, nascono da quanto con tanti di voi abbiamo condiviso in questi mesi e sono animate dall’intento di agevolare il confronto in presenza.
Memoria grata
Per quanto inattesa, la tempesta ha incontrato la reazione e l’impegno quotidiano di Istituzioni nazionali, regionali e locali; il coraggio e la dedizione umana e professionale di operatori sanitari, cappellani di ospedale e volontari delle Caritas e di altre associazioni: “silenziosi artigiani della cultura della prossimità e della tenerezza”, li ha definiti il Santo Padre, “una delle colonne portanti dell’intero Paese” (Francesco, 20 giugno 2020).
E che dire della testimonianza solidale offerta dalle nostre Chiese? Diocesi, parrocchie, comunità religiose, sacerdoti e laici sul territorio si sono fatti carico di vecchi e nuovi bisogni, a partire da chi si è ritrovato senza lavoro e alle prese con gravi difficoltà economiche, esposto a un’incertezza lacerante.
Le nostre Chiese hanno messo a disposizione un numero incredibile di strutture, vuoi per l’accoglienza di medici e infermieri, piuttosto che di persone senza fissa dimora, vuoi per spazi e ambienti ora destinati all’attività scolastica pubblica; attività – quella didattica ed educativa – che rimane tra le più colpite dalle conseguenze della crisi.
Ancora: con quante iniziative le nostre realtà hanno accompagnato e sostenuto la speranza di molti, abitando i tempi vuoti e gli spazi circoscritti, la solitudine degli anziani e la situazione inedita delle famiglie. Quanti gesti semplici di attenzione e vicinanza, quante proposte di preghiera e animazione, di catechesi e liturgia “a distanza”! Non sono mancati abusi e derive individualistiche, rivelatrici probabilmente di quella che già prima era la qualità di determinate relazioni comunitarie. Con questi limiti, anche le forme virtuali – che vanno necessariamente confinate al tempo dell’emergenza – hanno permesso a tanti di continuare a sperimentare un senso di appartenenza ecclesiale e, in senso più ampio, di sentirsi comunità.
Memoria sofferta
Davanti al dramma, che ha lacerato la vita e la storia di tutti, come credenti abbiamo condiviso con gli uomini del nostro tempo sentimenti di smarrimento e dolore, di disagio e preoccupazione, forse anche di risentimento. “I nostri modi abituali di relazionarci, organizzare, celebrare, pregare, convocare e persino affrontare i conflitti sono stati modificati e messi in discussione da una presenza invisibile che ha trasformato la nostra quotidianità in avversità”, scrive Papa Francesco ai sacerdoti della Diocesi di Roma; sì, anche noi ci siamo ritrovati a “convivere e confrontarci con l’ignoto, con ciò che non possiamo governare o controllare e, come tutti, ci siamo sentiti confusi, impauriti, indifesi” (Francesco, 31 maggio 2020).
Quel “come tutti” include quanti, a livello globale, anche in questa emergenza sono costretti a pagare il prezzo più alto a causa di ingiustizie e disuguaglianze sociali, fino a ritrovarsi discriminati nella stessa possibilità di accesso alle cure, derubati della loro dignità dall’indifferenza del mondo. Indifferenza, sufficienza e arroganza che hanno avuto il loro peso nel condurre un atteggiamento aggressivo e predatorio nei confronti dell’ambiente: ora è sotto gli occhi di tutti la stoltezza che ci ha visti proseguire “imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato” (Francesco, 27 marzo 2020).
Annuncio liberante
Per molti versi, questa situazione richiama quella della prima comunità cristiana, riunita attorno agli Apostoli. È una comunità che sperimenta il pericolo, per reagire al quale non fa conto tanto su analisi o su nuove strategie, ma si raccoglie in preghiera: “Tutti insieme – evidenziano gli Atti (4,24) – tutti insieme innalzarono la loro voce a Dio”.
È questa unità, più forte delle difficoltà come di ogni legittima differenza, che ci fa Chiesa, Popolo di Dio; un’unità che matura, appunto, radicandosi nella relazione con il Signore. In Lui troviamo la chiave per interpretare e discernere ciò che accade, gli avvenimenti della storia personale e di quella collettiva.
Torno volentieri su questa pagina degli Atti degli Apostoli, perché evidenzia come la preghiera non sia finalizzata soltanto alla richiesta che Dio ponga fine alla prova: proprio nella prova la Chiesa chiede la grazia di “proclamare con tutta franchezza la Parola” (At 4,29); proprio nella prova si conforma al pensiero di Cristo e matura la libertà, il coraggio e la forza – la parresia – dell’annuncio.
Non vale forse la stessa cosa anche per noi? A indebolirci non sono mai state le prove, ma le nostre tiepidezze e infedeltà, la mondanità spirituale che ci allontana da una vita evangelica di povertà e di disponibilità, portandoci a pascere noi stessi invece di quanti ci sono affidati… “L’ora della prova – mi evidenziava uno di voi – è sempre la più preziosa, se vissuta nella fede e nell’amore, perché ci permette di non cadere in un caos esistenziale, di porre ordine alle nostre priorità e alle conseguenti scelte e di inserire la pagina della nostra storia nell’unico e meraviglioso progetto voluto da Dio”.
Non fatichiamo, quindi, a intuire che il nostro contributo alla ripresa ha la forma di un annuncio essenziale, radicato nel Crocifisso Risorto, che rimane l’unica vera novità che abbiamo da offrire al Paese; un annuncio lontano dalla tentazione di ridurre il Cristianesimo a una serie di princìpi, a una morale o a uno spiritualismo disincarnato; un annuncio che muove da un ascolto paziente, fino a lasciarsi interrogare e coinvolgere a fondo da quello che accade, sviluppando in noi un’umile comprensione e una solidale compassione per le persone ferite; un annuncio che rende liberi, perché introduce alla verità e narra la fedeltà di Dio anche in questo scenario; un annuncio che risponde a responsabilità educative, passa dalla celebrazione dei sacramenti e si concretizza in stili di vita e in segni visibili di servizio, di carità e giustizia, che ridonano speranza e rendono fraterna l’esistenza.
“Chi ha una parola d’esortazione, parli”
È con questo sguardo che intendiamo affrontare i prossimi mesi. Saranno tutt’altro che facili; a maggior ragione, sosteniamoci reciprocamente: “Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!” (At 13, 15).
Ci muove la fiducia nell’iniziativa sorprendente di Dio, che rende anche questo un tempo di grazia da riconoscere e assecondare con disponibilità, accogliendolo come un appello con cui lo Spirito ci sprona lungo sentieri inediti. “Se una presenza impalpabile è stata in grado di scompaginare e ribaltare le priorità e le apparentemente inamovibili agende globali che tanto soffocano e devastano le nostre comunità e nostra sorella terra – sono ancora parole di Papa Francesco – non temiamo che sia la presenza del Risorto a tracciare il nostro percorso, ad aprire orizzonti e a darci il coraggio di vivere questo momento storico e singolare” (Francesco, 31 maggio 2020).
Se questa ieri era la speranza di un Papa, oggi è giocoforza che “tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno” (EG 25).
Così, se ieri la stessa espressione di “Chiesa ospedale da campo” poteva risolversi in un’immagine suggestiva, oggi diventa la realtà che attende e impegna la nostra risposta: lontani dall’essere nostalgici, lamentosi o ripiegati su improbabili scorciatoie, sentiamo la responsabilità di affrontare strade nuove, lungo le quali ridisegnare il volto della nostra presenza ecclesiale.
Si tratta di prendersi a cuore le persone, la loro dignità, la casa comune, il creato; di curare e custodire le relazioni, di coltivare e alimentare il dinamismo della comunione, che vive di incontro e di reale condivisione; di tessere con convinzione e gratuità una rete di alleanze sociali per promuovere insieme il bene comune, di ciascuno e di tutti.
Papa Francesco, in occasione di una nostra Assemblea Generale di qualche anno fa, ci ricordava che il rinnovamento della nostra pastorale ci richiede un respiro e un passo sinodale: “Camminare insieme è la via costitutiva della Chiesa; la cifra che ci permette di interpretare la realtà con gli occhi e il cuore di Dio; la condizione per seguire il Signore Gesù ed essere servi della vita in questo tempo ferito” (Francesco, 22 maggio 2017).
Forse, proprio le celebrazioni senza la presenza del popolo ci hanno fatto sentire con più forza la ricchezza di carismi e ministeri che anima le nostre comunità e rende tale la Chiesa. Questa stagione ci impegna a far crescere il senso di appartenenza e di corresponsabilità, dando tempo al riconoscimento, all’ascolto e alla stima dell’altro, arrivando ad assumere in maniera concorde e convinta scelte condivise.
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Senza alcuna pretesa, vi condivido infine alcune domande, per lo più consegnatemi nei colloqui e negli incontri di questi mesi con diversi di voi.
* Questa situazione inedita conosce la ricerca sincera di uomini e donne, forse digiuni delle nostre abitudini e dei nostri linguaggi, ma abitati dalla sete di Dio. Come proporre un nuovo incontro con il Vangelo, come annunciarlo con parole e gesti credibili?
* Come aiutarci a superare rassegnazioni e luoghi comuni, per rileggere da una prospettiva di fede – quindi, con il pensiero di Cristo – anche questa stagione di angoscia e desolazione?
* Attorno a quale nucleo essenziale ripensare nelle nostre comunità ecclesiali percorsi possibili di catechesi e di maturazione della fede?
* Quali aspetti curare maggiormente nella formazione permanente dei nostri sacerdoti, quali processi favorire?
* Quali passi ci attendono per vivere maggiore collegialità episcopale e comunione ecclesiale?
* Quale contributo assicurare alla società italiana per rimuovere le cause della povertà, favorire l’inclusione di vecchi e nuovi poveri e far sì che nessuno sia escluso o resti indietro?
* Al di là di ogni tentazione di chiusura difensiva e autoreferenziale, come valorizzare al meglio i circuiti relazionali in cui siamo immersi e costruire alleanze tra soggetti e istituzioni?
* A cinque anni dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, quale approfondimento proporne e quali scelte assumere per recuperare un rapporto buono con sé, con gli altri, con il creato e con Dio?