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"Salvate i giovani siriani in carcere": appello di un medico fuggito dall'inferno della guerra   versione testuale
Articolo di Margherita Leggio - Trapani

(21 maggio 2014) - “In Siria ci sono tanti giovani che vogliono lasciare il Paese, ma vengono fermati e condotti in prigione. Mi appello alla comunità internazionale, affinché possa intervenire in loro aiuto”. È l’appello di un padre, che al termine di un viaggio difficile e molto sofferto, è riuscito a portare in salvo la sua famiglia: i cinque figli ancora adolescenti e la moglie.

Cinquantaquattro anni, medico, l’uomo per motivi di sicurezza intende mantenere l’anonimato, per questo, per comodità, lo chiameremo Jibril, un nome di fantasia. Il professionista è riuscito a fuggire dall’inferno della guerra civile che dal 2011 insanguina la Siria. Esercitava la sua professione in ospedale, a Homs, ma oltre un anno fa, dopo avere assistito agli orrori delle continue battaglie fratricide che gli hanno portato via anche amici e parenti, ha riunito la sua famiglia ed è andato via. Ormai era diventato impossibile potere condurre una vita normale. Abbiamo incontrato Jibril al centro Sprar “La Locanda”, di Castelvetrano, gestito dalla cooperativa “Insieme”, dove è giunto lo scorso 11 maggio dopo il maxi sbarco a Trapani di 423 migranti. Jibril racconta in inglese il suo dolore, quello di un intero popolo e di tanti altri migranti in fuga dalle guerre e dalla fame.

“Anche da noi – spiega – è la mafia a dettare legge. Le ragazze vengono rapite dalle proprie abitazioni e portate via. Durante la guerra ho deciso di non andare più a lavorare in ospedale. Era diventato troppo rischioso. Per tre mesi ho svolto la mia professione a casa, dove ho curato gratuitamente molte persone ferite. Poi la situazione è diventata insostenibile. Così, con mia moglie e i miei figli abbiamo scelto: o la vita o la morte e siamo fuggiti dalla Siria. In auto abbiamo raggiunto l’Egitto in due giorni e da lì, dopo altri due giorni, la Libia”.

In quest’ultimo Paese, anch’esso politicamente allo sbando, Jibril è rimasto per un anno, prima di potere affrontare il “viaggio della speranza” attraverso i marosi del Canale di Sicilia. È stato tra pochi fortunati. Non ha, infatti, vissuto il dramma della detenzione in un lager. Ha trovato una sistemazione in casa di amici, ma ha respirato il clima pesante di un’attesa estenuante.“È la mafia – aggiunge – ad organizzare questi viaggi e nell’organizzazione ci sono anche siriani. La gente, dopo avere pagato la somma richiesta, viene raccolta in un locale dove non può avere contatti con nessuno e da lì viene diretta verso l’imbarco. Poi, a un certo punto, ci hanno detto: questa è la vostra barca per andare in Italia e io e la mia famiglia, per ciascun componente della quale ho pagato 1.200 dollari, ci siamo saliti sopra insieme con altre centinaia di persone. Era un natante lungo 12 metri sul quale eravamo stati stipati in circa 300. Eravamo stanchi e disperati e avevamo di fronte a noi chiara la nostra scelta: vivere o morire. Ora siamo qui, vivi e salvi”.

Anche per Jibril l’Italia è soltanto un Paese di transito. Il suo obiettivo è andare altrove, come quello di tante altre famiglie siriane, che all’indomani del loro arrivo alla “Locanda” hanno raccolto in un sacchetto in plastica le loro poche cose e se ne sono andate via. Hanno raggiunto la stazione ferroviaria di Castelvetrano  e da lì sono partiti verso altre destinazioni.

“Io e la mia famiglia – conclude Jibril – vogliamo andare in Svezia, dove c’è un nostro parente e dove spero di potere tornare a svolgere la mia professione di medico. Un giorno, però, se la situazione cambierà, spero tanto di potere tornare in Siria”. (Margherita Leggio - Trapani)