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Architettura intesa come dialogo

Intervista al Prof. Aimaro Isola*
a proposito del libro “Chiese per il nostro tempo. Come costruirle, come rinnovarle” di Roberto Gabetti
 

*Aimaro Isola, professore emerito del Politecnico di Torino, è uno tra i più noti architetti italiani. Nel 1950 costituì a Torino con Roberto Gabetti lo Studio “Gabetti e Isola” che si distinse per il suo approccio “neoliberty”: un'evoluzione del moderno attraverso la salvaguardia della memoria. Dal 2000, anno della scomparsa di Gabetti, ha aperto lo Studio “Isolarchitetti”. Si è occupato di molti progetti per il culto. Nel 1998 risultò vincitore dei “Progetti Pilota” della Conferenza Episcopale Italiana per il centro parrocchiale di Zivido San Giuliano (MI).
 

Gli argomenti trattati nella rubrica “Un libro al mese” sono ridiscussi in interviste con diversi esperti. Ne nasce un colloquio volto ad approfondire gli argomenti esposti nei volumi. Le opinioni presentate sono qualificate ma personali, non necessariamente condivise da chi promuove la rubrica.
07/05/2015
L'architettura è teoria e prassi, vincolate insieme in un nesso inscindibile. E un nesso inscindibile è stato quello che ha unito Roberto Gabetti e Aimaro Isola, sinché il primo ha potuto operare.
 
Come procedevate nella concezione e nell'elaborazione dei progetti delle chiese?

«Tutti i nostri progetti nascono dal dialogo, anzitutto con il committente, con il luogo, con la storia: solo con l'attento ascolto si pongono le premesse per operare. Il colloquio prosegue poi, tra di noi, in studio e prosegue in cantiere. Con Roberto ci si confrontava su come affrontare i problemi, si riesaminavano i progetti analoghi, recenti ma anche lontani nel tempo. A poco a poco il progetto prendeva corpo. Roberto lavorava più agli sviluppi letterari, io a quelli grafici, ma ci trovavamo sovente assieme al tavolo da disegno. Ed è quanto continuiamo a fare ancora come Isolarchitetti, con Saverio Isola, Flavio Bruna, con tutti i soci e gli amici. Il colloquio, continuo e intenso, alle volte anche duro, consente di inquadrare meglio i problemi, ed è la conditio sine qua non per affrontare un progetto».
 
07/05/2015
Dopo il Concilio i progettisti hanno goduto di una libertà inconsueta nell'affrontare l'architettura delle chiese. Rispetto alle direttive vigenti in epoca postridentina vi siete trovati in condizioni di relativa incertezza. Gabetti ha scritto “questa insicurezza dà qualche fiducia che le nostre esperienze possano esprimere quanto non è stato ancora espresso”: ovvero che la pratica riempia il vuoto lasciato dal ritrarsi delle richieste del committente. Come vede tale situazione oggi, a 60 anni dal Concilio?

«Nel progettare ci si trova sempre di fronte al “vuoto iniziale”: il foglio bianco da riempire; ma credo che “l’incertezza” sia precondizione di ogni progetto serio. L'approccio di Roberto Gabetti era soprattutto storico-culturale: in senso diacronico ma anche sincronico. Occorre confrontarsi con la cultura del momento, ma anche con la storia che a questa ha portato. Ove vi siano prescrizioni certe si trova già un primo orientamento, ma nel tempo le indicazioni mutano, così come nella storia sono mutate le consuetudini liturgiche. Si pensi a come il passaggio del Concilio tridentino ha portato variazioni significative nell'architettura delle chiese, e come anche l'illuminismo abbia avuto un chiaro influsso, generando nuove attenzioni verso gli stili storici, verso altri mestieri e saperi. Sempre chi progetta si trova di fronte a orizzonti vasti e aperti, ma comunque vanno riportati ai temi dell'incarnazione e della comunità. Anche le recenti esperienze progettuali si confrontano con il “gusto” attuale, con nuovi poteri: quelli degli organi di tutela, dei committenti e delle autorità civili. Tutto questo limita ma anche esalta l'architettura, che a sua volta è portatrice di una propia autonomia, di un proprio orgoglio, di pregi e di difetti.
Credo che gran parte del paesaggio contemporaneo sia ampiamente segnato dalla banalizzazione di un'architettura che tende, o a ripiegarsi verso la funzionalità del mercato, o a inseguire inutili spettacolarizzazioni: nel progetto delle chiese come in ogni altro edificio. E, se tutto questo esprime la condizione storica attuale, è importante lottare contro questi atteggiamenti. Forse la via giusta non sta né nell'una posizione, né nell'altra. E neppure in una via di mezzo. Occorre invece proiettarsi (questo è il senso del pro-gettare) in una prospettiva nuova, ma attenta alla specificità del tema. Credo che le parole di papa Francesco siano certamente di stimolo verso questo cammino».
 
07/05/2015
Come inquadrare il rapporto tra altare, centro focale della chiesa, e complessità dell'edificio?

«È importante riferirsi alla vasta complessità dell'articolazione dell’edificio chiesa. Spesso la tendenza è di limitarsi al regolarizzare la geometría degli spazi tra altare e vano chiesa. Va indagato a fondo, soprattutto il rapporto tra altare e l’intero complesso dell'edificio, esteso anche al suo intorno. Le nuove chiese sono anche centri parrocchiali, luoghi molto articolati: va affrontato il tema degli spazi significativi tra altare, chiesa e luoghi urbani. A partire dal sagrato, la “corte dei gentili”, dove la chiesa incontra la società contemporanea e i problemi che questa contiene. L'altare potrebbe anche essere visibile dall'esterno, da chi sta, o passa, in quello spazio di mediazione che è costituito dal sagrato. Per questo abbiamo posto la porta di ingresso trasparente, nella chiesa di Zivido di San Giuliano Milanese, come in quella di Desio e di Palmi. La porta segna una soglia: che è differenza ma anche continuità. Poter vedere il crocifisso sin dall'esterno aiuta a promuovere il dialogo. Del resto lo spazio del sagrato è la continuazione di quello della chiesa: lì si manifesta la gioia dei battesimi, dei matrimoni, come anche il comune patire nel caso dei funerali».



 
07/05/2015
Per altare e altri luoghi liturgici v'è anzitutto il problema del loro posizionamento: come affrontarlo?

«Riguardo alla collocazione dell'altare e degli altri poli, non credo vi siano state innovazioni, dopo il Concilio. C'è chi lo colloca al centro dello spazio ecclesiale, ma il centro geometrico non necessariamente coincide con il centro eminenziale. Rilevante è il dialogo tra i diversi luoghi: altare, ambone, sede del presidente, custodia eucaristica.

Nelle chiese da noi curate abbiamo ricercato una qualche continuità tra arredi e pavimentazione: quasi che l'altare si presenti come un emergere dalla terra verso il cielo. La chiesa ha in più anche caratteri che l'avvicinano allo spazio domestico, e l'altare è inteso come mensa. Cerchiamo di rifuggire dalla ricerca della “numinosità”: pensiamo che per appartenere fino in fondo alla comunità, la chiesa non debba essere vista come luogo dell'eccezionialità, del “numinoso”, del “sacro” antico, ma debba essere abitata e vissuta come luogo dell'accoglienza, dell’ospitalità e della prossimità.

L'elaborazione della pavimentazione va certamente curata: si stabilisce sovente un dialogo con la copertura e questo definisce una geometria che aiuta a esaltare i luoghi liturgici eminenti e le relazioni che tra questi si stabiliscono. Può essere segnato il camminamento assiale centrale, che conduce all'altare. Abbiamo impostato i progetti più recenti secondo una pianta circolare o ellittica, questo aiuta il raccogliersi della comunità ed è anche un richiamo alla storia».
 
 








 
07/05/2015
C'è poi il problema della specifica fattura dei poli liturgici: se non monumentali, spesso sono artisticamente elaborati, ma possono anche essere semplici e lineari...

«Siamo sempre stati contrari alla eccessiva monumentalizzazione dell'altare. Certamente dev'essere un luogo ben fermo, dotato di peso, di gravitas, anche per questo lo preferiamo di pietra. Può anche non avere interventi scultorei: il luogo è di per sé eloquente. Ma siamo convinti che l'argomento vada affrontato caso per caso: ogni parroco o liturgista ha le proprie idee, che vanno ascoltate. Ogni comunità parrocchiale ha le proprie propensioni e tradizioni, ogni artista una propria sensibilità. Anche per questo occorre anzitutto il dialogo. Pensiamo che sia, forse, più rilevante introdurre un'elaborazione artistica nell'ambone, piuttosto che nell'altare. Perché in quest'ultimo la materia in sé esprime un senso simbolico, sia pietra o legno. E non occorre eccedere in simboli, che sovente sono oscuri. Mio figlio Hilario, che è artista, in alcune chiese ha proposto interventi scultorei, in particolare per il crocifisso, ma tutti improntati alla leggerezza, così che l'elaborazione artistica non soverchi il senso dello spazio liturgico. In alcuni casi, come a Desio e a Cuneo per esempio, abbiamo posto un altare scolpito, in legno, in marmo, ma con levità, con le facce elaborate a drappeggio, come se fosse una tavola imbandita coperta da una tovaglia».
 
 
07/05/2015
Quale ritiene sia l'insegnamento più rilevante ricavato dalla Sua lunga esperienza di progettista di chiese in gran parte condivisa con Roberto Gabetti?

«Che la chiesa sia capace di essere sentita come spazio dell’ospitalità, luogo per ognuno e per la comunità. Ecco che da un lato è rilevante che vi sia rapporto col paesaggio urbano circostante: questo cerchiamo di ottenere attraverso la trasparenza, la scansione degli spazi, la continuità visiva, ma anche con l'uso di materiali – pietra, mattoni o legno. E che vi sia modernità nella continuità con la tradizione. Là dove si costurisce una chiesa nuova in sostituzione di una esistente e non più funzionale, è importante che, nella nuova, si traducano alcuni elementi a rappresentare la continuità storica con i linguaggi della comunità.

Nella sagrestia della chiesa che ho restaurato nel mio paese, Bagnolo Piemonte, abbiamo trovato alcuni antependi in tessuto, antichi, bellissimi. Per valorizzarli ho elaborato una teca trasparente posta di fronte all'altare, dove questi possono essere inseriti, a seconda della liturgia, restando visibili e allo stesso tempo protetti. Tradizione e innovazione sovente vanno assieme».
 
 
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