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Amate l'architettura

Gio Ponti

» Leggi l'intervista a Guendalina Salimei
"Gio Ponti e la coerenza in architettura"

 
18/10/2013
18/10/2013
18/10/2013
18/10/2013
18/10/2013
 
 

18/10/2013
Titolo: “Amate l'architettura”
Autore: Gio Ponti
Editore: Vitali e Ghianda (1957 – edizione attuale: Rizzoli, 2008)
Numero pagine: 303
Prezzo: £ 2.000 (edizione attuale: 30,00 euro)
18/10/2013
Pensieri sparsi attorno al tema dell'architettura, scritti come “confessioni” da uno dei maggiori protagonisti del XX secolo in questo campo. Una difesa di quest'arte attraverso considerazioni personali, formulate nell'epoca in cui la vita professionale dell'autore raggiunge il suo apice col progetto del grattacielo Pirelli, più volte citato nel testo. Come scrive lo stesso Gio Ponti: «questo è un libro scritto per aforismi, col desiderio di isolare i pensieri ed esprimerli brevemente». E ancora: non vi sono idee originali, «le idee sono ciò che si riflette in noi di un universo d'idee» dal quale le raccogliamo, andandovele a trovare. Ma è il «mio» libro, dice Ponti: quello che scrive e riscrive man mano che evolve il suo conoscere il mondo. Magari ripetendosi, perché «la buona architettura vi è considerata come un fatto d'impegno morale, e ha quindi contro di sé il male, la speculazione, la fretta, l'ignoranza; affinché essa sia vittoriosa e i giusti pensieri prendano sostanza occorre ripeterli instancabilmente: e li ripeto anzitutto a me».
18/10/2013
Gio (Giovanni) Ponti (Milano, 1891– 1979). Laureatosi in architettura al Politecnico di Milano dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale, collaborò prima con l'architetto Emilio Lancia, poi con gli ingegneri G. L. Mellucci, A. Fornaroli e E. Soncini. Nel 1928 fondò la rivista “Domus” che continuò a dirigere tranne per una breve interruzione negli anni dal '41 al '48. Dal 1936 al 1961 fu cattedratico al Politecnico di Milano. Nel 1951 aprì uno studio di progettazione insieme con l'ing. Fornaroli e con l'arch. A. Rosselli. Sin dagli anni Venti operò come designer firmando tra l'altro le ceramiche Richard Ginori. La sua attività di progettista e designer lo rese noto e apprezzato in tutto il mondo. Tra le sue molteplici opere: il grattacielo Pirelli, il palazzo della Rai, il quartiere Harar-Dessié, la chiesa di S. Francesco al Fopponino in Milano, l'Istituto Italiano di Cultura a Stoccolma (Svezia), gli hotel Parco dei Principi a Sorrento e a Roma, la concattedrale di Taranto, l'Art Museum di Denver (Colorado).
18/10/2013
«Una Città, una società umana, non è perfetta se non offre il luogo per il conforto della preghiera, per il segreto della speranza, per il colloquio con la nostra coscienza che è il colloquio con Dio: non è perfetta se l'architetto non ha creato per essa il luogo per isolare, per elevare quei pensieri che consacrano il fatto altissimo di esistere come esseri umani.
Un pensiero mi accompagna sempre: l'architettura religiosa non è una questione d'architettura ma di religione. Lo pensai dopo che vidi alcune chiese antiche in Brasile, non lungi da San Paolo, essenziali. Lo pensai dopo che vidi quella cosa essenziale, vera lezione d'architettura, che è il Sitio di Padre Ignacio: nella cappella una porta con dei buchi, il sacerdote di qua, il peccatore di là: ecco il confessionale: essenzialità, l'architettura elevata a religione pura. Lo pensi quando vidi “Notre Dame des Pauvres” a Parigi e provai un'alta emozione (religiosa, non architettonica). Mi turbai in questi pensieri quando meditai sui lavori per Lourdes e sugli errori nei quali gli architetti potevano cadere. Mi turbai in questi pensieri vedendo sulle riviste (e al vero) alcune “chiese moderne”, chiese sofisticate, e chiese “pinocchio”: erano essenza di religione? Dove erano strutturalmente interessanti il diavolo non aveva tentato lo spirito dell'architetto? (Non so se se n'era impadronito facendogli concepire la chiesa per una ambizione d'artista o, peggio, per un “esperimento”? E ciò non aveva contaminato anche gli ecclesiastici committenti traendoli in queste avventure non religiose?).
San Francesco, religioso puro, non aveva nella chiesa francescana, stanzone rettangolare, puro, ritrovato l'essenziale per la costruzione religiosa?». (pagg. 264-265)
18/10/2013
Amate l'architettura! Un invito cantato con poetico afflato, un'intenzione che pervade tutto il testo: amatela antica e moderna perché entrambe compongono «quel teatro che non chiude mai, gigantesco, patetico e leggendario, nel quale noi ci muoviamo, personaggi-spettatori vivi e naturali», la città, l'ambiente costruito ove si dipanano i giorni, che siano nell'antica Venezia o nella sfolgorante New York, dove l'architettura sempre testimonia la sua epoca. E amatela perché siete in Italia, luogo dalla singolare vocazione architettonica, composta metà da Dio e «metà dagli Architetti».
Ma l'invito è anzitutto volto a far sì che il lettore comprenda l'architettura dei nostri giorni: non voltandosi indietro con nostalgia del già fatto, bensì assumendo il senso del progettare con le tecnologie più nuove e per il sentire dell'oggi: «Amate l'architettura moderna, comprendetene la tensione verso una essenzialità... un connubio di tecnica e di fantasia.... i movimenti di cultura, d'arte e sociali ai quali essa partecipa... Amate gli architetti moderni, non ci sono altri architetti per voi, ma siate duramente esigenti con essi: è il modo vero di amarli, di operare con loro e per lodo: richiamateli sempre alle loro responsabilità... essi non debbono seguitare gli stili del passato (sarebbe più facile), ma debbono seguire la nobiltà che gli stili del passato ci dimostrano nell'incanto delle opere più pure (è il difficile)». E il confronto col grande passato serva dunque di stimolo di qualità per l'oggi, non di remora alla fantasia: al punto che è bene tifare per l'uno o per l'altro dei protagonisti del progetto, verso i quali l'Autore chiede non sudditanza, ma rigorosa esigenza così che le opere nuove siano allo stesso livello di quelle antiche.
Non è difficile: non arzigogolata, non complicata. L'architettura facile, come lo è quella vernacolare, spontanea, che mira all'essenziale come sono le case di Alberobello o di Santorini. «La complichiamo noi architetti, quando riusciamo cattivi architetti o accademisti (dell'antico, del moderno) e non le obbediamo».
E che cos'è dunque architettura? Non semplice costruzione, bensì espressione propria di una cultura e di un tempo dato che, ove raggiunga pienamente il suo scopo, si eleva - come l'arte sola sa fare – al di sopra dei tempi e diviene “bella” per ogni epoca. V'è quindi un aspetto funzionale, al quale tutti sono chiamati a pensare: gli insegnanti, così che le scuole siano luminose e accoglienti, i medici, così che gli ospedali siano allegri e invoglino alla vita, gli industriali, così che gli impianti per gli operai siano sicuri ed efficienti... A tutto questo gli architetti dovranno aggiungere l'arte: che gli edifici siano anche belli.
Anche i politici dovrebbero pensare all'architettura, perché la «Polis è Architettura»: così pensavano gli antichi ma «oggi non ci pensano mai, non ci sanno pensare», conclude Ponti con una delle pochissime note di pessimismo.
Il che non deve distrarre l'architetto dal fatto che la sua è una missione di valore sociale che consiste nel dare alle persone ambienti gradevoli dove vivere. Rispettando i centri storici per quel che sono e programmando espansioni urbane dotate di nuovi centri pensati secondo piani regolatori responsabili, dove in tutti i quartieri si rovino servizi pubblici adeguati e in tutti gli appartamenti spazi confacenti. Ecco che la figura dell'architetto assume la dimensione di colui che presta un'opera di servizio essenziale per la società: non in quanto utile alla gloria del “principe”, ma per il benessere comune.
Come si caratterizza l'architettura contemporanea? secondo il principio che incapsula tutta l'opera di Ponti e che riassume nel concetto del “cristallo”. Non in quanto forma (per quanto il disegno esagonale che è caratteristico dei cristalli ricorra nei suoi progetti), ma in quanto purezza, leggerezza e trasparenza di costruzioni stabili e concluse.
La sfera, specifica Ponti, non ha inizio né fine: non “sta”. Non può essere architettura. Le tante forme che possono essere architettura sono quelle capaci di reggersi in modo stabile (piramidi, obelischi, cubi o serie di cubi), forme chiuse che poggiano stabilmente: le soluzioni circolari sono concepibili solo come basi di cilindri o di cupole, capaci di poggiare saldamente al suolo
 
Oltre alla stabilità, l'architettura include dinamicità, non perché si muova, ma in quanto espressione artistica, come esemplato nel “Discobolo” di Mirone.
E compiutezza: «Il Battistero di Pisa non si può sopralzare, un quadro non si può aumentare, né una musica prolungare». Sono opere complete, dotate di unitarietà e intangibili: mentre le costruzioni seriali, basate su elementi ripetuti, possono essere prolungate o sopraelevate senza variarne il senso.
Ma come giudicare l'architettura? C'è chi si sente smarrito in assenza di uno stile dominante, che è una caratteristica della nostra epoca. Ma, obietto l'Autore, se la bellezza appartenesse a un singolo stile, ne escluderebbe altri: se fosse “bello” il canone barocco non potrebbe esserlo il tipo romanico o quello gotico...
Ponti polemizza con chi sostiene che vi sia una frattura tra l'architettura moderna e quanto avvenuto sino alla fine dell'800, per via dell'emergere di materiali e tecniche nuove (metallo, cemento, cristallo) nel contesto di diverse condizioni economiche e sociali. Ma che c'entra tutto ciò col giudizio sulla bellezza? Identica storia, identiche tecniche, identici ambienti hanno sempre prodotto infatti opere belle e opere brutte, mentre «diverse storie, diversi ambienti, diversa tecnica hanno prodotto il Partenone e il Battistero di Pisa che sono egualmente belli».
 
In questo l'A. afferma la perenne contemporaneità delle opere importanti e valide, a prescindere dall'epoca e dalle condizioni nel cui contesto sono sorte.
La bellezza dell'architettura dipende dalla forma e questa sussiste solo se v'è “invenzione formale” che diventa irripetibile, immodificabile e unica. E in tale forma si deve identificare la struttura, poiché solo così la forma è autentica e sincera: forma veritatis. Altrimenti diviene nascondimento, paravento, menzogna. Ne discende che la verità strutturale che si manifesta nella forma va portata all'essenzialità, dove non v'è nulla da togliere né da aggiungere, poiché si raggiunge una compiuta «unità, contro ogni estetismo (tradizionale o modernistico) e contro ogni decorativismo (attenzione però a non scambiare il plasticismo dell'architettura antica, tutt'uno con essa in funzione celebrativa e dedicatoria, con la decorazione). L'essenzialità è un termine di giudizio e di misura dell'opera d'arte architettonica» (pag. 68).
L'architettura non è ripetizione: le città più vive e belle si trasformano in continuazione, mentre gli stili ripetuti fuori dall'epoca loro sono «accademia, falsità dunque». Bisogna «operare con stile, non in stile», avere un'educazione classica, non operare secondo una derivazione classica.
L'architettura ha le sue leggi, fatte di misura e di concordanza tra forma, struttura, funzione ed espressione, ma anche di tecnica. «Le leggi ci guidano, gli stili corrompono le idee, perché si corrompono col tempo», ovvero l'architettura dev'essere contemporanea al suo tempo e se riesce ad esprimersi sul piano dell'arte, allora diventa anche contemporanea in ogni tempo in quanto singola creazione originale.
L'edificio vuole «semplicità (cioè sincerità), ordine il che vuol dire, in sintesi, essenzialità, nella quale è la sua verità. L'edificio non vuole essere bugiardo, camuffato in qualcosa che esso non è, come capita agli stilisti e agli imitativi. Vuole poi la sua forma pura e finita, la sua originalità, perché senza la sua forma esso non è... L'architettura ha le sue voci, agli architetti captarle e obbedirle: sono la guida migliore».
La parte finale del volume è dedicata al rapporto tra architettura e religione: «La Chiesa elargì civiltà e nei suoi edifici stessi elargì a tutti, anche al più povero, architettura (e quale!), musica (e quale!), pittura (e quale!), scultura (e quale!)... Prìncipi della Chiesa, amate l'architettura! L'avete tanto amata nel passato. In essa sono, dopo quelle della santità, le supreme opere umane in gloria del Creatore».
E l'architettura e l'arte concepite per la Chiesa non possono non nascere dalla religione stessa. Si tratta non solo di far aderire l'edificio chiesa all'arte propria della sua epoca, ma anche di renderlo consono alla specifica espressione di fede che si manifesta in una specifica epoca. E ora, «qual è il conforto che la nostra epoca chiede alla Chiesa e che da essa sommamente riceve?» chiede Ponti. E risponde: « Il conforto alla nostra solitudine morale e spirituale» derivante dalla meccanizzazione, dalle grandi organizzazioni statali che riducono la persona a numero comprimendone la singolarità nella massa. Solo nella chiesa l'uomo ritrova la propria individualità in quanto essere umano, creatura singola e irripetibile. Non funzione, ma essere umano accettato e compreso per quel che è, povero o ricco, felice o infelice, buono o cattivo... E «gli architetti di oggi, che per lo Stato e la Società costruiscono gli edifici delle organizzazioni di massa, debbono costruire la Chiesa per l'uomo solo. Se il Ministro di Dio nelle parole e negli atti è termine fra Dio e l'uomo solo, l'architetto partecipi a creare l'ambiente per questa ospitalità dell'anima sola nella Casa di Dio, con una espressione architettonica adeguata spiritualmente all'uomo, e senza impedimenti decorativi, che disturbino l'incontro fra l'uomo e Dio. E un rilievo di grandissima purezza sia dato al fonte battesimale, ed un invito di grandissima sincerità sia dato al confessionale: e regnante su ogni cosa la Croce vera sia Gesù, uomo in terra sofferente in Croce.
«Se dunque – ci è stato dubitosamente chiesto – possiamo noi più architettare chiese? Noi possiamo ben rispondere: che mai quanto in questi tempi, e per i tempi che verranno, l'architetto si può accingere con più lucida coscienza d'una angoscia umana e con più illuminata speranza e fede, ad architettare una Chiesa, a sentire a quale bisogno essa deve assolvere» (pag. 274).
La chiesa, dunque, per Ponti è il coronamento della città, e un veicolo che nella società e nella storia trasmette il messaggio di salvezza, divenendo il porto in cui l'essere umano disorientato e perduto ancora e sempre trova conforto.
18/10/2013
Vergato con poetico vigore e sincera convinzione, il volume, a quasi sessant'anni dalla sua prima edizione, è ancora fresco e godibile, autentico e attuale. Ponti usa una scrittura sbarazzina, per nulla paludata, al punto che spesso la punteggiatura è carente, le maiuscole assenti. E tutto questo sottolinea la spontaneità dell'opera, ulteriormente evidenziata dal capitoletto finale chiamato “errata corrige” in cui Ponti elenca argomenti e fatti, persone e luoghi di cui avrebbe voluto o dovuto parlare, ma non l'ha fatto, come a ripromettersi di farlo altrove o a evidenziare che tanti sono i maestri dell'architettura contemporanea verso i quali avrebbe voluto manifestare apprezzamento (se nel corpo del volume più volte cita Le Corbusier, Aalto, Niemeyer, Mies van der Rohe, Terragni, Persico, Pierluigi Nervi e altri, in questa “coda” parla di Kenzo Tange, Asplund, BBPR, Rykwert, Albini, Figini e Pollini, e altri coi quali collaborò).
E nel complesso, e forse anche in forza della sua asistematicità, il volume risulta non solo un documento importante in quanto testimonianza del pensiero di un grande dell'architettura contemporanea, ma anche istruttivo riguardo a come specialisti e non specialisti possono rivolgersi a questa disciplina, e riguardo a quel che da questa possono e debbano attendersi, oltre che a come valutarne le opere.
Accade spesso di leggere testi di architetti che a parole esprimono teorie, proposte, idee delle quali poi non sembra trovarsi traccia nelle opere a loro stessi progettate. Non è così per Gio Ponti, il cui impegno di progettista è coerente con quanto proclama sul piano teorico: il che si riassume nella sua “architettura di cristallo” e nella sua capacità di esprimersi con gesti di valore insieme tecnico e artistico. La vera architettura richiede doti poetiche, e Ponti tali doti manifesta, sia nei progetti, sia negli scritti.
Egli si addentra anche nelle specificità di singoli elementi – i pavimenti, le porte, le finestre, le scale, ecc. – e dà concrete indicazioni su come pensarle in quanto parti costitutive di un tutto in cui la funzione e il significato artistico si saldano inscindibilmente. E, pur insistendo sul valore assoluto dell'opera architettonica come espressione d'arte, non perde mai di vista il rapporto con la funzione e la finalità dell'edificio in relazione con le persone che se ne servono o che lo abitano e con le attività che vi si svolgono.
L'estetica nella sua visione è inscindibilmente legata all'etica del progetto, come la forma è vincolata alla struttura e, in quanto tale “vera”. Forse anche in questo si riconosce il fatto che Ponti lavorò in stretta collaborazione con alcuni dei migliori ingegneri dei suoi tempi.
È un libro che insegna come amare l'architettura, aiutando a distinguere quella vera da quella che vera non è; un libro capace di parlare sia agli architetti, sia ai committenti, sia a chi vive l'architettura in quanto scenario entro il quale si svolge l'azione del vivere e dell'abitare, consapevole di quanto l'ambiente costruito possa influire sulle persone.
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