Liturgia

Omelia di S.E. Mons. Giuseppe Betori, Segretario Generale della CEI, in occasione della Festa di Sant’Ubaldo – Patrono di Gubbio (PG) – 16 maggio 2007

 Nella prima lettura di questa liturgia il libro del Siracide ci ha offerto il ritratto del Sommo Sacerdote Simone, un ritratto che ben si attaglia anche alla figura di Sant’Ubaldo, così come ce l’ha consegnata la storia e la devozione dei suoi concittadini. Ne emerge in particolare la funzione liturgica, fondamentale nel ministero di un vescovo – e di cui nella vita di Sant’Ubaldo si ha testimonianza vivissima proprio alla vigilia della sua morte, a ciò invocato dal suo popolo che ne reclama l’azione sacerdotale –, ma non vanno trascurati gli altri segni che completano l’immagine, in particolare in rapporto al servizio del popolo.
Perché proprio questo fa grande Sant’Ubaldo e quindi da sempre e da tutti in Gubbio venerato e amato: il suo essere servitore della comunità ecclesiale e civile. Gli episodi che ne arricchiscono la biografia vanno tutti in questa direzione: la riforma della vita del clero, l’accettazione delle sofferenze che gli procura il suo comportamento mite e pronto al perdono, la povertà e l’uso benefico dei beni materiali a vantaggio dei poveri, il mettere a repentaglio la propria vita per riportare la pace, il ripudio di ogni timore davanti ai potenti per difendere la causa dei deboli, la serena accettazione delle sofferenze che colpiscono il suo corpo con il progredire degli anni, le numerose guarigioni di malati e afflitti durante la sua vita e dopo la sua morte.
 Ma c’è una frase nel brano del Siracide che risplende di particolare vigore, illuminando il momento centrale del rapporto tra Sant’Ubaldo e la sua città: “Premuroso di impedire la caduta del suo popolo fortificò la città contro un assedio”. Non possiamo non scorgervi una esaltante corrispondenza con il segno di croce tracciato da Sant’Ubaldo che pose fine all’assedio delle città nemiche. Ma non possiamo dimenticare che esso giunse solo alla fine di un itinerario di conversione del popolo e dopo la supplica che il Santo rivolse al Signore. 

C’è una forte carica di esemplarità in questo episodio chiave della vita di Sant’Ubaldo, che molto più insegnare anche per la condizione odierna della nostra società. Nuovi nemici tentano di espugnare le nostre città, di sovvertire il loro sereno ordinamento e di creare turbamento alla loro vita. Questi nuovi nemici si chiamano il nichilismo e il relativismo, che in modo più o meno esplicito nutrono le tendenze egemoni nella nostra cultura: fanno dell’embrione, l’essere umano più indifeso, un materiale disponibile per sperimentazioni mediche; danno copertura legale al crimine dell’aborto e si apprestano a farlo per le pratiche eutanasiche, infrangendo la sacralità dell’inizio e della fine della vita umana; introducono il concetto apparentemente innocuo di qualità della vita, che innesca l’emarginazione e la condanna dei più deboli e svantaggiati; coltivano sentimenti di arroganza e di violenza che fomentano le guerre e il terrorismo; delimitano gli spazi del riconoscimento dell’altro chiudendo all’accoglienza di chi è diverso per etnia, cultura e religione; negano possibilità di crescita per tutti mantenendo situazioni e strutture di ingiustizia sociale; oscurano la verità della dualità sessuale in nome di una improponibile libertà di autodeterminazione di sé; scardinano la natura stessa della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo e di una donna. 

Occorre avere consapevolezza di questa battaglia in corso attorno alla persona umana e alla sua dignità e di quanto essa sia decisiva per il futuro della società, ma occorre anche riconoscere che può salvarci solo il riferimento al Dio creatore e alla sua legge scritta nei nostri cuori, e a noi rivelata in pienezza da Gesù che ci offre anche la grazia di adempierla. E questo riferimento trascendente che, giustamente, don Angelo Fanucci – nel suo commento alla vita di Sant’Ubaldo scritta da Giordano – vede in quel collocarsi “in alto” da parte di Sant’Ubaldo nel prendere posizione a favore dei suoi concittadini nel dramma dell’assedio. Così come la grandezza del Sommo Sacerdote Simone è tutta nel suo essere pontefice, ponte tra Dio e il suo popolo, altrettanto Sant’Ubaldo si colloca al di sopra di una visione puramente umana delle cose e si pone nella prospettiva di Dio, altrettanto anche noi oggi siamo chiamati a discernere e giudicare il presente con gli occhi di Dio e a chiedere a tutti, credenti e non credenti, di fare altrettanto se vogliamo salvare il nostro futuro, a vivere tutti – come ci ha invitato Benedetto XVI – “etsi Deus daretur”, “come se Dio esistesse”, ribaltando l’ipotesi che ha retto il pensiero e l’agire della modernità, l’“etsi Deus non daretur”, il “come se dio non ci fosse” che ha prodotto i forni di Auschwitz e i gulag della Siberia. Se vogliamo difendere il vero volto dell’uomo abbiamo bisogno di riscoprire il volto di Dio.
 E il volto di Dio è l’amore, come ci ha ricordato il Santo Padre nella sua enciclica Deus caritas est. Non però l’amore debole che nasconde la verità, che crea ambiguità sotto il velo della falsa tolleranza, bensì quello esigente che non rinuncia a ferire per curare, a distinguere per poter allacciare ponti veri e non a voler rendere tutto fittiziamente omologo, a richiamare alla responsabilità senza indulgere in un buonismo alla fine perdente. Solo da questa carità nella verità può scaturire quella capacità di costruzione della comunione che segna tante vicende della vita di Sant’Ubaldo e che la seconda lettura, tratta dalla lettera di San Paolo agli Efesini, descrive nei termini della benevolenza, della misericordia, del perdono, della carità a imitazione di Cristo che “ha dato se stesso per noi”. 

 Questa visione alta della carità, che non rinuncia alla verità, ma proprio per questo è capace di generare progetti di novità di vita nella sfera individuale e in quella sociale, è ciò che è chiesto oggi ai cattolici. Da un siffatto progetto di rinnovamento spirituale, culturale e sociale può scaturire quel dominio sui dèmoni del nostro tempo, la cui sottomissione, secondo le parole della pagina del vangelo di Luca, è legata al nome di Gesù e al nostro affidarci come discepoli a lui. L’attesa della protezione del Santo è viva per noi, come lo fu in occasione della sua morte da parte dei tanti poveri che si rivolsero alla sua intercessione. Ma, come ci ricorda il vangelo, ancor più importante è che il nome di Sant’Ubaldo splenda scritto nel cielo e che a questa meta di santità chiami tutti noi. La meta della santità, costituisce anche nel tempo presente il compito affidato alla testimonianza che i credenti sono chiamati ad offrire al Signore Risorto, così che egli possa risplendere come speranza per l’umanità. Lo abbiamo ribadito nel recente Convegno ecclesiale nazionale di Verona. Vogliamo riascoltarlo con le parole di Giovanni Paolo II, che al termine del grande Giubileo dell’anno 2000 ci ha riproposto la santità come «“misura alta” della vita cristiana ordinaria», che tutti quindi ci interpella a vivere, per usare le parole di Benedetto XVI, rispondendo con il “sì” della fede al «grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza». Così sperimenteremo per noi e saremo capaci di testimoniare agli altri la bellezza della vita cristiana, come essa sia compimento pieno e ulteriore di ogni nostra attesa, gioia perfetta che nulla può oscurare e che non avrà mai fine.

     + Giuseppe Betori

Cattedrale di Gubbio
16 maggio 2007 – Festa di Sant’Ubaldo

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