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Martedė 18 Novembre 2014
Il Convegno del Pontificio Consiglio
La famiglia nel trauma della migrazione   versione testuale
Non statistiche da analizzare, ma di vissuti da interpretare: questa la realtà dei migranti, troppe volte considerata a livello di individui, mentre coinvolge l’intera famiglia. Il Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e itineranti ha promosso il VII Congresso mondiale (Roma, 17-21 novembre) sul tema “Cooperazione e sviluppo nella pastorale delle migrazioni”. La tavola rotonda di martedì 18 si è interrogata sulla famiglia migrante nel contesto della diaspora: moderata da Mons. Domenico Pompili, ha visto gli interventi di Mons. John Wester, vescovo di Salt Lake City (USA),  Mons. Lucio Muandula, vescovo di Xai-Xai (Mozambico) e Mons. Mario Toso (Segretario Iustitia et Pax).
“Affrontiamo un argomento in cui non si tratta di statistiche da analizzare, ma di vissuti da interpretare – ha spiegato Mons. Pompili -: siamo qui per lasciarcene educare, ascoltando la testimonianza di tre pastori provenienti da latitudini diverse (America, Africa, Europa) ma dove il rapporto tra famiglia e migrazioni è un nodo irrisolto o, per meglio dire, un nervo scoperto.
“Cogliere il rapporto tra famiglia e diaspora – ha spiegato il Sottosegretario della Cei – significa cogliere più concretamente quello tra la cultura d’appartenenza e il trauma della migrazione”.
Mons. Pompili si è, quindi, soffermato su come le famiglie migranti presentino un quadro clinico preoccupante per l’impatto che si produce su ciascuno dei suoi membri a seguito di un ‘viaggio’ che sradica dal proprio habitat e trasferisce in contesti sconosciuti, spesso inospitali. I sintomi, ha spiegato, sono molteplici: i genitori sono depressi o sofferenti; i figli faticano ad imparare e ad adattarsi alla vita scolastica, sono inibiti e aggressivi verso i compagni; tutti avvertono un malessere legato al loro possibile o mancato ricongiungimento. Genitori e figli, in molti casi, vivono come ‘sospesi’ tra il mondo di origine e quello di arrivo.
“Il migrante – ha concluso, citando il Rapporto sulla Protezione internazionale, curato e presentato ieri da Caritas, Migrantes e altri soggetti nazionali ed internazionali – è vivo ma lontano da casa sua; lavora, ma non con i suoi; parla un’altra lingua che non sarà mai la sua; è in una nuova società ma ‘segregato’; è fra le due facce di una realtà che cerca di addomesticare”.