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 Congresso Eucaristico Nazionale - Notizie - Per la sete dei poveri - Due mondi meno distanti 
Due mondi meno distanti   versione testuale

Quattro pesanti portoni telecomandati separano la cappella del carcere dal resto del mondo. Ma “chi ci separerà dal suo amore?”, cantavano di fronte al Santissimo i detenuti di Marassi, a Genova, sulle note del maestro Frisina, insieme ai delegati del Congresso eucaristico.

Le regole del carcere non fanno eccezione: all'ingresso bisogna tutti lasciare documenti e cellulare, anche la classica brava ragazza come Maria Pia, 21 anni, studentessa di lettere e catechista in parrocchia, capitata qui quasi per caso, tra le 46 “opere” di misericordia genovesi aperti ieri alle visite dei congressisti: “quando ho visto la mail del direttore del carcere, all'inizio ho sentito un po' di ritrosia…”. Invece Davide dei suoi 26 anni ne ha spesi qui più di un terzo: “sono qui dal 2007, perché frequentavo amici che ho capito poi non lo erano”, racconta pudicamente.

Due mondi oggi un po' meno distanti di prima. Davide si è riavvicinato alla fede proprio qui dietro le sbarre; Maria Pia si è ripromessa d'ora in poi di raccontare che in carcere “ci sono persone come tutte le altre, peccatori come noi”.

Tutti hanno prima pregato con la guida del cappellano del carcere, don Paolo Gatti. Poi seduti in cerchio per un dialogo molto informale, in cui raccontare ognuno di sé. Da una parte sacerdoti, suore, laici impegnati pronti a confessare candidi una sorta di “paura” del carcere del tutto immotivata, a conti fatti, frutto persino di qualche ingenua fantasia da bambina, come quando Agnese - racconta lei stessa – osservava con sospetto dalle tribune del vicino stadio Marassi quella strana gente addossarsi alle sbarre delle finestre, per vedere un po' di partita: “però è un'opera di misericordia, e io fino ad oggi non l'avevo mai fatta...”.

Dall'altra i detenuti, compreso qualche habituè delle patrie galere (“la soddisfazione più grande”, confida un po' triste don Paolo, “sarebbe il non vederli rientrare, e invece capita spesso il contrario”), prima tutti assorti in silenzio, poi desiderosi di dire ognuno la sua. Il carcere, dice Paolo infervorandosi, “non è l'università del crimine: un uomo qui può anche cambiare”; “ma se ci lasciano nell'ozio”, lamenta Pasquale, “allora è chiaro che si esce più abbrutiti”.

Infine un bel pranzo a base di pizza, varie altre vivande e vino rosso, fuori della cappella. Ma una volta usciti, è la richiesta affidata ai delgati, parlate del carcere e di noi: “qui c'è gente che una volta fuori diventa pure meglio di altri”, assicura Davide.

(Paolo Fucili)